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Intervista a Silvano Scalzini: un viaggio a colpi di Mistrà nelle tradizioni enogastronomiche delle Marche

Mistrà

Silvano Scalzini è un personaggio molto conosciuto in provincia di Macerata. Ha gestito per molti anni un ristorante di successo, in cui non si mangiava solamente ma si poteva intraprendere un percorso di conoscenza delle tradizioni enogastronomiche di questa terra. Ora Silvano ha deciso di proporre sul mercato un suo Mistrà, bevanda tipica marchigiana. Ecco cosa ci ha raccontato.

Silvano Scalzini, sei un personaggio molto conosciuto in Provincia di Macerata e non solo per le tue conoscenze storiche ed enogastronomiche. Da dove nascono queste passioni?

Le mie conoscenze enogastronomiche nascono prima di tutto perché sono figlio di contadini, come ho già spiegato nel libro sulla cultura del lardo, quindi l’ho vissuta in prima persona nella mia numerosa famiglia. Poi ho avuto la fortuna di seguire mio padre nel suo lavoro di terzista in giro per la provincia e oltre (Morrovalle, Montelupone, Recanati, Loreto Castelfidardo, Tolentino, Camerino, Matelica, Colfiorito) e questo mi ha portato ad essere ospite nelle famiglie che ci chiamavano e per quasi vent’anni ho mangiato quello che queste mettevano sopra la tavola. Questo ha fatto sì che ho sempre potuto fare dei raffronti con la tradizione: in questa terra la stessa ricetta può variare tra casa e casa, poi basta fare dieci chilometri e trovare un’altra usanza, un altro tipo di abbinamento, sempre dovuto al legame col territorio. Il nostro territorio è diviso per vallate e le stesse per pianura, colline, semi-montagna.
La passione per le conoscenze storiche prima erano legate ai racconti che riesco a ricordarmi di quando ragazzino mi facevano i vecchi contadini, che a tavola raccontavano le loro storie e le loro esperienze, sto parlando di ottantenni negli anni tra il 1970 ed il 1980 quindi nati agli inizi del novecento. Mai avrei pensato che quei racconti un giorno sarebbero stati oro per la conoscenza storica di una cultura da sempre bistrattata e ridicolizzata. Pensate che uno dei più longevi insulti è “Sei un un contadino”. I contadini erano e sono considerati poveri, stupidi, ignoranti e morti di fame. Chi mai avrebbe pensato di scrivere libri su tale basso popolo, eppure adesso ci sono una miriade di esperti e conoscitori.

Passioni che poi hai trasformato in lavoro. Per anni hai gestito un ristorante nell’entroterra maceratese. Parlaci di questa esperienza.

Per varie esigenze nel 2000 ho aperto il ristorante Il Picciolo di Rame, dove ho riversato tutta la cultura culinaria appresa negli anni trascorsi senza modificarla e l’ho riversata nei piatti. Sia gli anziani contadini della provincia che venivano a mangiare (e loro sono stati i mie più severi giudici) che tutti gli altri delle altre provincie, regioni e soprattutto i turisti stranieri, riscontravano che il cibo che servivo era straordinario perché semplice, gustoso, vario e leggero. Sì leggero, perché tutti pensano che una volta l’alimentazione era grassa, pesante, monotona, ma nulla di più falso. Quando i clienti hanno capito la mia filosofia (che vuol dire ricetta tipica non modificata, e non come oggi che si chiamano “ricette rivisitate” che significa “come mi pare a me”) hanno cominciato a chiedermi anche se conoscessi storie del nostro territorio, specialmente gli stranieri e quelli provenienti dalle altre regioni. All’inizio non ero molto preparato così mi sono messo a fare ricerche storiche leggendo testi e soprattutto facendo sopralluoghi unendo la ricerca di altre ricette tipiche, intervistando anziane signore (“le Vergare”), e chiedendo ai loro mariti (i “Vergari”) se erano a conoscenza di storie e racconti su determinati luoghi, chiese, paesi, strade che poi integravo con testi di altri ricercatori ufficiali.
Dopo tutta questa consapevolezza ho cominciato a tirare delle conclusioni e alla fine mi sono accorto di quando poco conoscessi, anche dopo tutta la mia esperienza da giovane. Da lì non ho più smesso di leggere, viaggiare, chiedere finché sarà possibile a quei vecchietti (ormai rimasti molto pochi) per comprendere sempre di più questa meravigliosa e misteriosa terra.
Ma la cosa si è fatta molto interessante quando a Il Picciolo di Rame mi potevo confrontare con importanti personaggi seduti ai miei tavoli, come rettori universitari, sovrintendenti all’archeologia, professori archeologi, storici, linguisti, ricercatori, antropologi, scrittori, poeti, architetti, premi Nobel, confrontarsi con questi è stato importante per quello che sono oggi.
Unire la cultura enogastronomica di base di questa terra alla ricerca di arte, storia e leggende è stata un’esperienza pazzesca e penso unica nel suo genere.

Da poco tempo hai deciso di produrre un distillato tipico delle tue zone, il Mistrà, e di metterlo in commercio. Spiegaci che tipo di prodotto è, come si utilizza e quali sono le sue caratteristiche.

Siamo sempre concentrati sul cibo e sul vino eppure io ho sempre saputo che c’era un altro prodotto che caratterizzava la cultura contadina nel nostro territorio e del quale si è sempre parlato poco e per quel poco quasi sottovoce, sto parlando del Mistrà.
Anche tra i contadini se ne parlava poco e ogni volta che si menzionava veniva sempre chiamato diversamente, tipo “l’acqua de lu puzzu, l’acqua de Pievebovigliana, l’acqua santa, torci budella, lo disinfettante, ecc. Solo da quando ho cominciato a fare il Mistrà ho compreso il motivo di tanta riservatezza.
Da sempre produrre alcool è illegale, esso è un monopolio di stato, quindi più proibito delle droghe. Questo l’ho sempre saputo perché quando d’inverno lo faceva mio nonno io venivo sempre allontanato. Eh sì, si conoscete il proverbio “li frichì sporca casa”?. I bambini dicono sempre la verità. Se per caso veniva il Dazio (ora la Guardia di Finanza) e veniva a sapere che in una casa era probabile che si distillasse, i primi che venivano interrogati erano i bambini, ecco perché questi non dovevano sapere.
Ma questa era arte, non tutti erano capaci e così c’erano addetti che d’inverno con la neve si recavano nelle case e durante la notte distillavano quel litro di alcool, magari metà lo aromatizzavano con gli anici raccolti nei campi e lo usavano per aromatizzare l’orzo o per fari i dolci a carnevale e anche per berlo cosi come un sorso di fuoco. Mentre un poco lo lasciavano puro, poi andavano nei negozi specializzati o i farmacia e compravano gli estratti per poi farci l’archermes, il rum, ecc.
Quindi dire che in casa si aveva Mistrà era sinonimo di alcool e quindi di possibili sopralluoghi del Dazio. E se trovato c’era la possibilità di andare in galera, del resto anche oggi è così.
Un giorno a mio padre chiesi se sapesse dove mio nonno avesse tenuto il distillatore; mi disse che non ne sapeva niente o che era rotto o che l’avesse regalato, di sicuro non sapeva niente. Capisco.
Quindi un liquore proibito, un liquore associato alle prime ubriacature.

Tutt’ora il Mistrà è un liquore surclassato da grappe, amari e ora dai gin, liquori che nulla hanno a che vedere con la nostra cultura. Quindi la mia idea era ed è quella di rivalutare questa Acqua di vite antichissima, forse il liquore più antico che l’uomo abbia creato.
Raccogliendo i segreti di quei pochi contadini che sono riuscito a contattare e a farli sbottonare ho capito che avrei avuto l’opportunità di crearmi una mia ricetta e poi farla conoscere ai miei commensali al Picciolo.
Ne parlai con mio padre e lui, preso dal desiderio di riassaporare un Mistrà di una volta, un giorno tornò a casa con un piccolo distillatore da laboratorio col quale cominciai a fare esperimenti. Riuscivo a produrne un bicchiere per volta e non era facile trovare le giuste quantità di semi per avere un gusto a cui mio padre ricordasse quello di una volta. Mai perso d’animo e a forza di riprovare ci riuscii e a quel punto avevo una ricetta, ma non sapevo come poter produrne abbastanza senza rischiare la galera e servirlo ai clienti del Picciolo.
Un giorno di questa mia idea ne parlò mio padre ad un finanziere suo amico e questi gli disse che per non rischiare potevo acquistare l’alcool puro al supermercato, quindi essere in regola, e poi lavorare con l’infusione dei semi di anici e di quello che volevo io. L’idea mi piacque e subito mi attivai, ma non volevo prendere un alcool qualsiasi così mi recai al liquorificio di Camerino e chiesi loro cinque litri di alcool. Giustamente mi chiesero il motivo, che spiegai, ed ecco succedere il miracolo.
I titolari, che mi conoscevano, mi consigliarono sì di utilizzare il loro alcool ma invece di fare le infusioni e macerazioni loro mi avrebbero dato i loro olii essenziali naturali con i quali avrei potuto sviluppare la mia ricetta e se avessi voluto avrebbero potuto imbottigliarlo e mettere la mia etichetta con il nome del Picciolo.

Avere a disposizione i consigli di chi per quarant’anni produce liquori non ha eguali, così da quel momento è partito il desiderio di avere un mio Mistrà.
Conoscevo gli ingredienti che mi avevano confidato i contadini non mancava altro che trovare la giusta composizione di olii. Cominciai con una bottiglia di alcool a quarantasei gradi in cui versavo le varie gocce di essenze, chiudevo la bottiglia una bella shakerata ed era pronta.
Quando poi avevo clienti al Picciolo alla fine della cena insieme al caffè arrivavo io e chiedevo se gradivano un Mistrà, da lì ho scoperto che erano in pochi a conoscerlo, specialmente gli stranieri e i clienti di altre regioni. Le loro reazioni mi servivano per correggere ed aggiustare il sapore, ma mi accorsi che i veneti conoscevano il Mistrà. Rimasi colpito ma comunque posso affermare che sono stati loro, anzi le loro donne, nel corso degli anni che hanno definito la mia ricetta. Tanto che negli ultimi cinque o sei anni mi hanno convinto ad aumentare la produzione e di etichettarlo, con il triste avvento della chiusura del Picciolo ho fatto l’ultimo passo: quello di uscire dalle mura del ristorante e provare a proporlo in giro.
Il mio Mistrà è fatto con alcool agricolo a quarantasei gradi, senza nessun tipo di dolcificante, con aggiunta per un sessantacinque per cento di Anetolo e dei restanti di essenze naturali che danno il gusto morbido e prolungato.
Il Mistrà è supportato da regolamentazione europea.
Il Mistrà è un liquore adatto a chi lo zucchero è nemico, è un aromatizzante di eccellenza per, dolci, bevande, cocktail, in cucina, frutta, pesce. Ha solo due problematiche: non va bevuto da chi è allergico all’anice e bisogna fare attenzione all’abuso di alcool.
La caratteristica del mio Mistrà è quella di essere secco e se bevuto dopo il pasto riordina e profuma la bocca, e la digestione è garantita, del resto come tutti gli altri Mistrà.

Perché il mistrà è così importante per la zona del maceratese? Quali sono le tradizioni che lo legano così tanto alle persone che abitano quei luoghi?

Quando i veneti mi dicono che conoscono il Mistrà, al contrario di tutto il resto del mondo, non potevo che farmi la domanda, Perché?
Di certo il Mistrà è rilegato in una zona ristretta del maceratese, del fermano e dell’ascolano, mentre nell’anconetano niente, strano mi dissi. Da qui cominciai le mie ricerche e la prima cosa che ho scoperto è che tutti conoscono i liquori italiani al gusto di anice tipo sambuche, anisette, mentre in Francia c’è il Pastis, in Grecia l’Ouzo, ma questi sono tutti liquori dolci, ma il Mistrà è secco.
Dovevo seguitare a fare ricerche, tengo a precisare che queste ricerche le ho iniziate dieci anni fa. Inserendo la parola Mistrà in internet mi esce fuori la Rocca di Mistras a poca distanza da Sparta in Peloponneso, città bizantina più ben conservata della Grecia. La sua storia risale al 1200 ed è legata alle crociate e poi nel XVII secolo con la storia della Serenissima. Questo spiegava il Pastis francese e perché lo conoscessero i veneti, in particolare a Venezia. La mia spiegazione è che i francesi, come la Serenissima, riportarono l’Ouzo. I Primi lo chiamarono Pastis, mentre i veneziani scelsero il nome che ricordava il liquore che veniva dalla Rocca di Mistras, da qui il Mistrà. Mi piaceva questa idea, ma poi che c’entravano le Marche con il Mistrà veneto?
Già sapevo che esiste la chiesa di San Marco alle Paludi vicino Fermo e che sul suo Campanile troneggia un bellissimo Leone di San Marco con tanto di libro aperto. Ci sarà pur un motivo mi dissi, parlandone in giro mi venne detto che sullo stemma di Petriolo addirittuta c’è il Leone di San Marco con il libro aperto e che la spada tratta mi dissero essere lo stemma di guerra della Serenissima. Portando avanti queste discussioni con i clienti del Picciolo un signore di Porto San Giorgio mi disse: “lo sai che fino a qualche anno fa da noi si faceva la festa del Doge? Lo sai che molti cognomi fermani sono di origini venete?”.
Secondo me in quel momento avevo risolto il dilemma: da Fermo erano partiti due Dogi, quindi presumo che il legame tra la Città di Fermo e Venezia era molto forte, tanto da scambiarsi cognomi e perché no anche il Mistrà è potuto arrivare da noi, ed essendo un prodotto complicato da fare per via della tecnica quasi alchimista e per le restrizioni fiscali nel corso dei secoli, si è poi infatti diffuso nelle campagne limitrofe a quelle fermane.
Ora sì che potevo raccontare una bella storia sul Mistrà. Se sarà quella giusta non lo so ma so solo che piace a tutti e che è probabile.

La Regione Marche ha una grande ricchezza di eccellenze enogastronomiche. Pensi che si stia facendo abbastanza per la loro promozione e per la diffusione di una vera “cultura delle tradizioni”?

La Regione Marche è una regione fantastica piena, anzi ricolma di storie, di arte e di leggende, ne sono pienamente convinto. Come sono convinto, e ne ho le prove, che è ricolma di cultura del cibo e questa cultura è legata principalmente all’arte dell’agricoltura perché i nostri contadini del passato (quarant’anni fa) riuscivano a ricavare dalla terra tutto ciò di cui avevano bisogno per sfamare la propria famiglia e anche da vendere per ricavarne soldi utili a comprare quello che non potevano produrre come zucchero, stoffe, abbigliamento, pentole, attrezzi agricoli. Tutta la loro conoscenza era concentrata sullo sfruttamento ciclico dei terreni e tutto questo derivava da millenni di conoscenza tramandata da padre in figlio.

L’importante è non cadere nelle credenze della cultura negativa dei politicanti dove tutto era fame e disperazione, povertà e miseria. I contadini non hanno mai sofferto la fame, nei vent’anni che ho mangiato nelle famiglie contadine mai ho trovato contadini che morivano di fame o che non avessero niente da mangiare. Sì c’era qualcuno che ci provava ma era solo una tecnica per avere sconti su quello che dovevano pagare, in fondo è una tecnica tutt’ora utilizzata un po’ da tutti: conosco benestanti che si lamentano che le cose non vanno bene. Un detto dice: “la terra non ti fa ricco, ma ti fa mangiare”, del resto è la prima necessità per vivere.
Chi veramente soffriva la fame erano quelle famiglie che dovevano vivere in città perché non avevano né soldi né terra da coltivare ed erano costretti a fare lavori umilianti dai benestanti oppure andare a lavorare dai contadini per racimolare del cibo, questa è storia non fantascienza.
Questa introduzione era d’obbligo per far comprendere quanta cultura avessero gli agricoltori e che oggi purtroppo è rilegata all’oblio, nessuno coltiva più la terra per sfamarsi, ma solo per hobby, coltivando solo due o tre cose perchè oggi nessuno ha più tempo per la terra, il tempo è prezioso.
Putroppo oggi le ricette antiche, quelle originali, non le presenta più nessuno. Primo perché troppo semplici quindi non classificabili a livello economico, poi con l’avvento della televisione cìè stata l’elevazione della povera cucina contadina ai cambiamenti e agli aggiustamenti che l’hanno portata ad un livello superiore, facendo credere che ciò che dicono gli esperti sia la sola verità. Quindi oggi la cucina tipica è diventata la cucina che più ci fa comodo.
Sono contento che chi è stato al Picciolo di Rame può comprendere ciò che voglio dire.
Oggi come oggi parlare di promozione e diffusione della vera cultura delle tradizioni marchigiane mi sembra un po’ azzardato, visto che fra dire e fare c’è di mezzo un divario sempre più ampio.
Non posso sbilanciarmi troppo senza entrare in polemica, i miei punti di vista sono molto diversi.
Con questo vorrei sottolineare a chi di dovere che le ultime vere tradizioni le hanno gli ultimi anziani ottantenni ancora in vita, perchè alla loro dipartita si potrà raccontare che i contadini mangiavano suntuose grigliate, fiorentine, tartufi, pesce, qualche ortaggio, e bevevano bollicine. Ora è arrivato anche il sushi, che chissà fra qualche anno potrà diventare un piatto tipico, questa è la legge.

Oltre al Mistrà che hai appena messo in commercio, hai altri progetti per il futuro?

Nel breve tempo ho da presentare altri due tipi di Mistrà, questa è la cosa più concreta che ho adesso quindi sono concentrato su questo.
Poi un mio sogno sarebbe quello di contribuire alla conservazione di tutte le ricette che ho appreso dalle vergare marchigiane e insegnarle ai ragazzi che sono innamorati di questa meravigliosa terra e non lo dico solo io, lo dicono i tanti clienti venuti a mangiare da me provenienti da tutte le parti d’Italia. Ho le firme in 34 lingue/nazioni di persone che hanno lasciato recensioni dove spiegano le sensazioni che hanno provato nel degustare certi piatti.

Proporre i piatti che rispecchiano la nostra vera tradizione sarà il futuro, e se la Regione punta su questa cultura del cibo senza se e senza ma, la Regione Marche diventerà la numero uno in Italia per cultura enogastronomica.
Ripeto, il mio sogno è quello di poter contribuire a tramandare questa passione perché se io domani mattina non mi dovessi svegliare più, tutte le mie ricerche fatte andranno perse e si perderà un pezzo di cultura come lo è quando muore un anziano contadino: è come perdere un’intera enciclopedia di conoscenza. La nostra cultura enogastronomia ha radici millenarie, ho sempre detto che l’uomo si cucina e si prepara del cibo da 10.000 anni, non come ci vogliono far credere oggi, di aver imparato a mangiare qualche anno fa. Ancora insistono nel volerci insegnare a mangiare e dirci cosa mangiare.

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