Vi ricordate dei Blue Drinks?
Erano quei beveroni di colori accesissimi (spesso a base di blue Curaçao) che andavano alla grande negli anni di “Flashdance” e della “Febbre del sabato sera”.
Passati molti anni, oggi studiosi del campo ed esperti mixologist considerano vera e propria spazzatura quelle preparazioni; ma non tutti!
Alcuni tra i più curiosi e sensibili hanno focalizzato i loro studi su un percorso di riscoperta dei classici dimenticati, drink fossili (1783-1829) e di quelli dell’era moderna (1920-1933). Il neozelandese Briars si è concentrato sui famosi drink azzurri, cercando la loro origine e restituendo loro un po’ di dignità. Pensate che dei cocktail blu se ne ha notizia già dagli anni ’30, antenati, cioè, dei più recenti Blue Lagun e Torquoise Blue, che tutti conoscono per essere il long drink di Tom Cruise in “Cocktail”.
Nonostante abbiano una storia, queste miscele sono bistrattate dagli amanti del classico, che li buttano nel calderone dell’era disco-music, tra i colori e l’eccentricità. Ma quell’epoca ha insegnato molte cose, prima fra tutte il concetto che bar e locali sono luoghi in cui vivere esperienze piacevoli, divertirsi, stare in relax.
I cocktail blu o colorati, ci ricordano che nel bicchiere possono essere proposte soluzioni che uniscono utile e dilettevole, facendo nascere anche la curiosità del cliente, stimolando addetti ai lavori e lo stesso barista all’uso di prodotti e materie prime nascoste nelle pieghe, a volte troppo rigide, delle classiche ricette che uccidono la fantasia.
E voi come consumatori o come barmen che cosa ne pensate?