Ricordate quei film anni cinquanta in bianco e nero dove gli american bar affollatissimi e fumosi erano l’attrattiva maggiore e dove i protagonisti avevano sempre in mano cocktails o drinks molto ricercati.
Ebbene queste atmosfere d’altri tempi si stanno sempre di più diffondendo e ricreando in molte città d’Italia; luci soffuse, divani bassi, musica retrò di sottofondo molte volte suonata dal vivo con un pianoforte a coda da un maestro in smoking.
Sono tornati i cocktail di barmen che con abilità da giocoliere, scuotono lo shaker sopra la spalla, catalizzando l’attenzione dei clienti e dando loro l’impressione di assistere alle alchimie di un mago, mentre i camerieri incedono silenziosi tra i tavoli.
Il Cocktail, con la sua miscela misteriosa, con i suoi colori ora pallidi, ora intensi e vivaci, diventa protagonista di una coreografia raffinata che va sorbita distrattamente in un pub come la birra, ma assaporata con attenzione per percepire l’armonia degli ingredienti, gustarne i contrasti, ammirarne la coreografia.
Il barman ha un’arte tutta sua che richiede studio e passione, grande precisione, ma soprattutto un raffinato senso del gusto, creatività e abilità, fusi in un’alchimia di sapori e colori dai risultati volutamente diversi; ha esigenze precise, a partire dal bicchiere per arrivare alla decorazione finale. Ed è sempre il barman, vero e proprio demiurgo, a decretarne il carattere e l’effetto.
Ma dopo tanti anni ancor oggi molti si domandano chi inventò l’arte del miscelare e come nacque il primo cocktail, per entrare nel mondo degli aneddoti, delle supposizioni.
La prima volta che si parlò della nascita etimologica della parola cocktail fu quando con il termine “coda di gallo” si indicava un cavallo cui era stata tagliata parte della coda affinché la portasse, appunto, alta come quella di un gallo.
Intervento che veniva eseguito su cavalli non purosangue, quindi il nome prese a indicare gli incroci e assunse il significato di “misto”, “mistura”, “miscuglio” e, quindi, “miscela”; e il cocktail era allora un mix di alcol, amaro, acqua e zucchero.
Un altro aneddoto fa riferimento al francese Antoine Peychaud che, dopo aver sperimentato una miscela di cognac, zucchero, spezie e amaro di erbe e averla mescolata in un coquetier (strumento di misura), si ispirò a quest’ultimo per il nome.
Affiora poi alla memoria il coquetal, una bevanda diffusa nel XIX secolo nella zona di Bordeaux e preparata sempre con vino aromatizzato.
La storia di Betsy Flanagan, albergatrice e moglie di un rivoluzionario che, nel 1779, serviva drink decorati con piume di gallo multicolori riscuotendo grande successo, tanto che un cliente avrebbe brindato, molto soddisfatto: “Vive le cocktail!”.
Anche i galli e i romani erano soliti creare misture di vino e sostanze aromatiche, in particolar modo miele e anice, pratica che continuò anche nel Medioevo.
Ma solo con gli “sling” (miscele di liquori, acqua e zucchero) preparati dagli inglesi si può collocare la nascita dei primi veri esempi di bevanda miscelata, insieme a tanti altre categorie di drinks entrati poi di diritto nel dizionario dei barman: buck, cobbler, cooler, crusta, cup, daisy, eggnog, fancy, fix, fizz, flip, grog, julep, negus, nog, posset, rickey, sangaree, smash.
Al Capone e la malavita fecero grandi affari nella distribuzione degli alcolici, spesso mescolati in modo inappropriato con altri liquidi, talvolta nocivi alla salute con nomi molto esplicativi e significativi come: vernice da bara, torcibudello, morte istantanea.
Con il passare del tempo queste bevande sono entrate a far parte della consuetudine, sia in splendidi bar o anche nelle abitazioni private, il cocktail diventa un’occasione per un party semplificato, un momento di incontro senza cena, solo per chiacchierare e ammirare l’abilità del padrone di casa trasformato in barman: un nuovo modo di stare insieme e uno stile di vita che fino a quel tempo era a solo ad appannaggio della ristorazione.
Fabio Renzetti
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